Fonte: La Repubblica |
Ho molto riflettuto prima di
scrivere questo post e non poche sono state le mie riserve etiche
nell'affrontare un tema di siffatta delicatezza, soprattutto perché
il tema portante è la morte di un giovane ricercatore, Giulio
Regeni, rapito in Egitto il 26 gernnaio 2016 e ritrovato esanime il 3
febbraio, lungo l'autostrada che da El Cairo porta ad Alessandria.
Regeni è deceduto in seguito
alle gravi violenze subite durante la sua prigionia in Egitto.
Era uno studioso, un
intellettuale al quale interessava il Mondo e interessava conoscere
l'Altro.
Conduceva
una ricerca riguardante l'universo sindacale egiziano e si trovava
nel Paese nordafricano, proveniente dall'università di Cambridge. In
loco afferiva all'Università
americana del Cairo.
Molte domande, vere o presunte
tali, rappresentano il paradigma di una trappola funzionale
all'allontamento di una verità che forse non sarà mai raggiunta.
È stata un'operazione
estemporanea da parte di un gruppo di crimanali comuni i quali hanno
scelto casualmente, per futili motivi, di far del male al giovane
ricercatore? Volevano forse impadronirsi dei suoi effetti personali?
È forse stato un sequestro a
scopo di estorsione, nei confronti di un Paese, l'Italia, che –
come spesso si vocifera - paga volentieri i riscatti per liberare i
propri connazionali?
E se questo fosse vero, chi
potrebbe aver pianificato il sequestro? Qual è la motivazione?
Poche e semplici domande.
Indefinite le risposte, reali o di circostanza.
Tante le piste devianti e tra
queste c'è anche quella dell'omosessulaità. Una delle tante ombre
che si confondono con le tante bugie e come spesso accade in questi
casi, la bugia diviene uno strumento strategico, oltrechè tattico.
Ci troviamo dinanzi all'indefinibile banda color grigio, frontiera
tra la verità e la realtà.
Povero Regeni! L'hanno toturato
e poi ucciso, e come si conviene in questi casi, il segreto è
mascherato da mistero.
Ci troviamo dinanzi alle solite
quanto inconfessabili ragioni del fato?
Mi vengono in mente alcune
riflessioni.
La prima è che in Italia,
diviene rituale ripetere le medesime argomentazioni ogni qualvolta
che ci si trovi dinanzi al fatto compiuto: qual è il nostro valore
di player internazionale? Il nostro deficit nella politica estera è
palesemente esoso, tale da rendere l'Italia un Paese dalla scontata
debolezza sul piano geopolitico e geostrategico.
La seconda è che un nostro
connazionale è rimasto vittima di un non meglio definito gruppo di
sequestratori e successivamente barbaramente assassinato: una brutale
normalità che allontana la verità.
La terza è che noi italiani,
attraverso i nostri attori istituzionali, perpetrando l'effetto
“struzzo”, rischiamo di contribuire all'allontanamento della
verità: tra le tante ipotesi, risalta quella del giornalista
investigativo, Marco Gregoretti, secondo la quale il giovane
ricercatore fosse in realtà un uomo servente una qualche struttura
d'intelligence.
Io non ho le prove concrete per
poter dimostrare un'ipotesi di questo tipo, ma posso certamente fare
un ragionamento sul piano storico, frutto di anni di ricerca e
pubblicazioni:
figure come quella
dell'accademico e in particolar modo con lo status del ricercatore,
hanno rappresentato in determinati casi, l'ambigua posizione di chi
ha avuto la capacità di servire contemporaneamente più padroni;
porto l'esempio di George Edward Taylor,
sinologo dell’Università di Washington che
insieme alle
antropologhe Margaret Mead e Ruth Benedict,
durante il secondo conflitto mondiale,
prestò
servizio presso l'Office
of War Information (OWI), la struttura
complementare all’OSS, agenzia
antesignana della CIA, in
particolar modo operativa
nell'
Estremo Oriente.
Così
come dimostra la Storia, quello del ricercatore è stato, e lo è
ancor oggi, un pericoloso habitus
che si presta ai crudeli equivoci, quale potrebbe essere la
sovrapposizione con la veste di copertura adottata in campo
istituzionale dalle
persone impegnate nei giochi
complessi e semplicisticamente
definite spie.
Non so
chi fosse e cosa realmente facesse il povero ricercatore Giulio
Regeni, ma certamente qualcuno, perdendo
lo stato della ragione nella labirintica Ragion di Stato, potrebbe
aver sacrificato la sua innocente
vita.
Paolo
Sannia
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